Per la rubrica PsyCall To Artist, oggi incontriamo la geografa culturale Giada Peterle!
Giada si occupa di geografie letterarie, ovvero di “narrazioni letterarie dello spazio, dei luoghi e dei paesaggi”. Il suo lavoro, in stretto contatto con il territorio, fonde la ricerca scientifica con il linguaggio artistico.
“I racconti influiscono sul modo in cui abitiamo, percepiamo e diamo quindi significato alle nostre città, e quindi le mie ricerche partono dalla prospettiva che ci sia un doppio livello di scambio tra la pagina del testo letterario e lo spazio reale.”
Abbiamo conosciuto Giada grazie al progetto “Quartieri - viaggio tra le periferie italiane”, un’antologia a fumetti pubblicata dalla casa editrice BeccoGiallo e nata “dal basso”, dalla voce stessa degli abitanti che si raccontano. “Quartieri” ci guida alla scoperta delle periferie di cinque città italiane: Milano, Bologna, Palermo, Roma e Padova. “Quartieri” nasce dalla collaborazione con il sociologo urbano Adriano Cancellieri dell’Università IUAV di Venezia e dalla creazione di una rete di fumettisti, antropologi, sociologi, urbanisti a partire dal gruppo interdisciplinare Tracce Urbane.
Ogni capitolo presenta uno stile narrativo e grafico diverso, unendo l’intento scientifico e quello creativo, per un risultato che ci catapulta in alcune delle periferie più famose d’Italia, a tu per tu con chi ci abita.
Il lavoro di Giada ci ha incuriosito e appassionato, per il modo creativo di mettere insieme la cultura e l’arte, affrontando temi sociali!
Ti facciamo qualche domanda per sapere qualcosa in più sul progetto “Quartieri”...
Quali obiettivi vi hanno guidato nella realizzazione del progetto?
La nostra volontà era quella di proporre un lavoro costruito “dal basso” che quindi non rappresentasse il quartiere come lo vedevamo noi, Adriano e Giada, bensì come viene visto, vissuto e raccontato dai suoi abitanti. Il tentativo di tenere tutto insieme in sole venti pagine era impossibile, così abbiamo deciso di dare il più possibile spazio a voci diverse, scegliendo molto spesso i “volti meno noti” del quartiere e tralasciando volontariamente alcune realtà ormai note e consolidate per il loro ruolo trainante (come ad esempio il barbiere rock Ruvido o la libreria Limerick). Un altro obiettivo è stato quello di essere fedeli, nella forma e nel contenuto del nostro racconto, a quello che abbiamo vissuto durante la ricerca sul campo: ciò che risultava inaspettato nelle nostre camminate per il quartiere è entrato a far parte della nostra storia, i volti e i gesti dei protagonisti delle interviste ritraggono le loro espressioni mentre rispondevano alle nostre domande. Noi stessi compariamo in alcune tavole, per segnalare il fatto che si tratta di un racconto costruito e vissuto in prima persona, che non pretende di essere raccontato da una voce narrante che vede e interpreta tutto “dall’alto”. Ci sono i nostri volti, le nostre mani, i nostri piedi. C’è una mappa che si racconta da sola, e noi siamo soltanto alcuni dei personaggi che si muovono al suo interno.
Come mai è stato scelto lo strumento dell’illustrazione? Quale pensi possa essere il valore aggiunto?
La domanda meriterebbe un’intervista a sé. Rispondo quindi brevemente: per me il fumetto non è soltanto un linguaggio espressivo, è uno strumento di ricerca. Conduco le mie ricerche attraverso i linguaggi creativi e visuali e narrativi proprio perché penso che consentano una visione altra, complessa, polifonica, multisfaccettata della realtà. Inoltre, in un gioco metanarrativo, mi consentono di rendere esplicite alcune riflessioni in maniera indiretta, lasciando al lettore l’interpretazione e la costruzione di un proprio percorso critico. Infine, il fumetto è un linguaggio solo apparentemente accessibile, che consente di portare la ricerca accademica al di fuori dei suoi confini tradizionali, coinvolgendo la cittadinanza, le associazioni, talvolta anche le amministrazioni in un modo e un dialogo che raramente viene attivato da prodotti accademici di stampo più tradizionale. Se pubblico un articolo in inglese sulle mie ricerche, difficilmente sarò invitata a parlarne in una piccola libreria di quartiere! Sono strumenti diversi, uno non esclude l’altro, anzi, si integrano a vicenda.
Quali sono stati i temi più ricorrenti riportati dagli abitanti?
È difficile pensare a temi ricorrenti, proprio perché quando abbiamo selezionato le persone da intervistare abbiamo lavorato il più possibile sulla diversificazione delle voci, per età, lavoro, provenienza geografica, ruolo all’interno del quartiere, in modo da comporre un quadro il più variegato e polifonico possibile. Tuttavia, tra gli abitanti “storici”, certamente un tema ricorrente è quello della perduta “età dell’oro” del quartiere, un tempo spesso rimpianto nei discorsi e in cui l’Arcella era una città a sé, in cui abitava una comunità unita, le strade erano più sicure e i bambini giocavano per strada. Quello che abbiamo riscontrato, però, è il fatto che quell’età dell’oro è ancora viva e, per certi aspetti, ha semplicemente cambiato forma. I bambini hanno altri luoghi in cui si trovano a giocare tutti insieme, al di là dell’appartenenza religiosa, linguistica, culturale. Un’altra comunità sta nascendo e si sente parte di un quartiere solidale, aperto, generoso. Il tema della sicurezza resta al centro del dibattito, nonché dei problemi che devono essere affrontati specialmente in alcune aree del quartiere, e per questo comprensibilmente ricorre in alcune interviste, ma non ha per noi meno valore di quello, altrettanto ricorrente, della volontà di integrazione e convivenza o di proiezione verso un futuro condiviso.
Che tipo di impatto sociale pensi possa avere un lavoro del genere? Quali i benefici sui partecipanti?
Non penso che si possa parlare di un vero e proprio “impatto sociale” e credo che, dal punto di vista dei partecipanti, non ci siano stati chissà quali benefici tangibili. Non eravamo così presuntuosi da pensare di poter cambiare qualcosa, con il nostro lavoro. Tuttavia, per alcune persone è stato sicuramente importante poter raccontare la propria storia: penso alla signora Maria, che con i suoi ottant’anni di lavoro nella scuola all’Arcella ha visto generazioni e generazioni di ragazzi attraversare il suo cortile. Penso a Ferdousi che, in quanto giovane madre immigrata, lavora quotidianamente sulla propria integrazione nella città. Per loro, come per altri, è stato importante avere qualcuno a cui raccontarsi, rendendo visibile la voce di tante altre persone le cui storie rischiano di rimanere altrimenti sommerse. Il fatto che fossimo dell’università, inoltre, ha permesso ad alcuni di raccontare il proprio punto di vista facendosi ascoltare, una sorta di atto politico implicito, come nel caso dell’associazione Maisha. Altri luoghi, come casetta Berta, seppur sgomberati poco dopo l’uscita del libro, continuano a vivere e operare attivamente nel quartiere e il fatto che ne resti traccia nel nostro fumetto ci rende un po’ orgogliosi.
Ci racconti un aneddoto avvenuto durante il progetto?
Il momento più emozionante è stato sicuramente quello di restituzione del lavoro fatto alle persone che avevamo intervistato e coinvolto nel progetto. Adriano ed io eravamo piuttosto spaventati dall’idea di consegnare il libro nelle mani dei protagonisti del racconto, perché interviste durate ore erano state riassunte in pochi scambi, addirittura compresse in un’unica tavola. Avevamo paura che non si riconoscessero, nelle parole, nei disegni, nelle parti di dialogo che avevamo scelto. Tuttavia, ogni volta è stata un’emozione impensata e quasi tutti hanno accolto il libro con entusiasmo, talvolta addirittura con commozione. Ricordiamo con il sorriso il tè e la torta che ci hanno offerto a casa di Somrat, Konok e Ferdousi, mentre ci chiedevano un autografo e una dedica disegnata. Soprattutto, ricordiamo quando Henri dell’Associazione Maisha ha sfogliato lentamente il libro, come a giocare con la nostra apprensione, per poi arrivare alla pagina che lo ritraeva e scoppiare in una fragorosa risata di gioia che ci ha contagiati tutti.
Per il futuro, pensi ci possa essere una continuità?
La nostra idea nel cassetto vede la possibilità di un secondo volume di “Quartieri” ambientato in altre città, magari addirittura in altri stati. Staremo a vedere!
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